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Pacunaimba – estratti

Per leggere l’incipit clicca qui Cartolina_Fronte_Pacunaimba

Tutte le illustrazioni sono di Silvia Mauri.

Paragrafo 10. Il Coraggio

La primavera e le elezioni si avvicinavano.
Il giorno della partenza, il cielo di Lancastre si riempì di fiocchi di polline: alcuni salivano in alto, altri si poggiavano sulle strade, coprendole di una coltre grigia e granulosa. Sugli alberi, la fioritura era iniziata.
Santo Emanuele partì avvolto da quella dolcezza alle prime luci dell’alba.
Mara lo andò a prendere in macchina e lo accompagnò all’imbarco della nave.
«Mara, la luce a cavallo!»
«Come? Anche all’alba?»
«Eh sì, al tramonto cavalca il giorno per scendere nella notte. E all’alba cavalca la notte per buttarsi nel giorno» disse Santo Emanuele.
La guardò negli occhi. Ma proprio negli occhi, profondamente.
Si perse in quello spettacolo luminoso. E tutto il resto si sfocò.

Pacunaimba

Paragrafo 20. L’arrivo a Pacunaimba

A Pacunaímba diluviava.
Erano le sette del mattino e nella piccola piazza dove la jeep lo aveva lasciato non c’era nessuno. Però l’autista gli aveva detto che a pochi metri c’era un bar sempre aperto e che nel giro di un’ora la città si sarebbe svegliata. Gli aveva indicato una cabina telefonica, che non gli sarebbe servita. E infine lo aveva abbracciato, come fossero vecchi amici, augurandogli buona fortuna.
Santo Emanuele aspettò sotto la tettoia di un negozio, camminando avanti e indietro, ascoltando il rumore dell’acqua che scorreva dalle canalette e si infrangeva sulla terra. Non c’era asfalto. Le strade e la piazza erano di terra battuta. Le case erano piccole, un solo piano, pareti pitturate ognuna con un colore diverso: il bar era arancione, lo spaccio di alimenti giallo, il negozio di bici rosso, il barbiere azzurro e la facciata della chiesa, verde tenue.
Mentre la pousada, che in brasiliano significa “pensione”, era bianca e circondata di palme.

Pioggia e moscerini

E le insegne non esistevano, tutto era scritto sui muri, a parole e con disegni che sembravano venuti fuori dalla mano di un bambino.
In aria si erano alzate delle enormi formiche volanti. Era uno spettacolo strano e inatteso: sembrava che il cielo fosse animato. Santo Emanuele osservò incantato quel gioco di caduta e sospensione: la pioggia cadeva pesante e le formiche volanti ascendevano ordinatamente in aria, come se fosse in atto uno scambio tra cielo e terra.
Ebbe l’impressione che Pacunaímba fosse una piccola macchia colorata in mezzo al verde. Un puntino di città in una pagina di foresta selvaggia.

 

 

Paragrafo 25. Il mato

Santo Emanuele guardò fuori dalla finestra. Era quasi buio.
La luce a cavallo, pensò.
«Agora vai tomar banho no rio!» lo esortò la donna, mimandogli di lavarsi per bene.
«Il rio? Un bagno non c’è?»
I due non avevano capito la domanda. Ma non c’era bisogno di risposta. Santo Emanuele si guardò intorno: la capanna era piccola e di terra. C’era un unico spazio rettangolare con un tavolo basso, un grande letto, delle mensole, un armadio, pentole poggiate su grosse pietre e una chitarra. Nient’altro. Capì da solo dove avrebbe dovuto lavarsi.
Nel frattempo, il fango gli si stava indurendo sulla pelle.
Santo Emanuele uscì dalla piccola capanna. Il rio distava pochi passi.
Un brivido di inquietudine lo attraversò.
Era nella foresta.
Guardava ogni angolo di mato che lo circondava. Vigile, attento.
Si ricordò dei racconti di guerra di suo nonno. Era stato in Africa e gli aveva raccontato che i posti più pericolosi sono le rive dei fiumi, perché è lì che gli animali vanno per bere e per mangiare.
Quando aveva sentito questo racconto per la prima volta, da bambino, si era immaginato i fiumi africani come lunghi tavoli da ristorante, dove gli animali si sedevano, bavaglio intorno al collo, con coltello e forchetta, aspettando che i pesci gli finissero in bocca.
Col tempo poi quell’immagine fantasiosa era evaporata e lui quasi non li ricordava più quei racconti. Tanto non l’avrebbe mai fatta la guerra, non si sarebbe mai trovato in situazioni del genere.
E invece…
Ma perché il suo lontano e sconosciuto parente, il fratello di suo nonno, se n’era andato fin lì? E perché mai lui stava rischiando la vita per il sindaco Arrabal, alla ricerca di quel singolo voto che gli avrebbe fatto rivincere le elezioni?
Si guardò intorno.
Tutto era calmo, solo l’acqua si muoveva. Ma lui avvertì una sensazione di pericolo che gli fece aguzzare la vista. E anche l’udito. E il tatto.
Si sentiva incredibilmente vivo. Presente.
Che strano sentimento che è la paura. Pungente. Come l’acqua fredda che lo bagnava.

 

Mare Imbuto

Paragrafo 32. O Italiano

Raggiunsero un tavolo sistemato sotto un albero incredibilmente grande e rigoglioso, con degli enormi frutti gialli.
«Questo è un albero di Giacca» disse O Italiano.
«Di Giacca?»
Alzando lo sguardo al cielo, Santo Emanuele si immaginò di vedere grucce che reggevano eleganti giacche, che dondolavano e giravano lentamente su se stesse, mosse dal vento. E scendevano e salivano con l’aiuto di liane.
Di sicuro sarebbe piaciuto a sua madre, che faceva la sarta.

Albero di giacca

«Não, che hai capito?» lo corresse O Italiano, «guarda, si scrive così…»
Dalla tasca prese un taccuino e una matita e tracciò la sagoma di quattro lettere: j-a-c-a.
«Jaca! È un nome che deriva dalla lingua indigena. Una volta si usava per dire pane. Perché dalla polpa si ricava una farina ricca di amido. E dalla farina si fa il pane. Un solo albero può bastare a sfamare una famiglia intera per lunghi mesi.»
«Ah…»
«Questo albero è il mio preferito» continuò O Italiano, «è maestoso, non se ne vede la fine, è una delle colonne del cielo, però devi stare attento!» esclamò, mettendolo in guardia.
«E perché?» chiese Santo Emanuele.
«Perché in questa stagione i suoi frutti sono maturi, li vedi come sono grandi? E quando sono maturi cadono, e se ci cadono in testa è un bel guaio!»
Neanche il tempo di finire la frase e uno dei frutti più alti si staccò improvvisamente dall’albero e cadde a terra, esplodendo e macchiando i vestiti di Santo Emanuele di un colore marrone.

 ***

Rio - CopiaParagrafo 37. Un bagno di luce

Con la luce negli occhi, rimase a contemplare le montagne, le nuvole, le ombre, il fiume e le rocce rosse.
«Quanti animali si nasconderanno là dentro?»
Poi si sdraiò sulla superficie liscia del masso, chiuse gli occhi, ascoltò il fiume e lasciò che il tempo si sgretolasse.
Proprio lui che a Lancastre si divideva tra mille richieste. Lui che era il tuttofare burocratico del Comune. Lui che non perdeva neanche cinque minuti a chiacchierare con la barista o con i passanti che incrociava in paese. Lui che era sempre indaffarato a rincorrere le richieste astruse di Arrabal, tra una pratica da sbrigare, un caffè da portare e un cittadino da rassicurare.
Sotto quella cascata, si sentì in mezzo a un paradosso: nel perdere tempo, scovava il senso del tempo.
Come Dedé: sdentato, eppure il più sorridente del paese.

***

Paragrafo 39. Polvere di note

Osservava il pianoforte ben legato al carrello, dietro la macchina: alle curve dondolava e saltava in aria per le buche che incontravano lungo il percorso. A ogni buca, il piano emetteva una nota.

Do, Mi, Sol

C’era qualcosa di magico in quel pianoforte che viaggiava per la foresta, avvolto nella polvere della strada, lasciandosi dietro note musicali.

Piano - Copia

 

Paragrafo 40. Fiori in cielo

La moto zigzagò tra campi di banani, piantagioni di caffè ed enormi alberi di Jaca.
La luce brillante del pomeriggio esaltava i colori di Pacunaímba.
Attraversarono rombando una vallata.E in quel breve lasso di tempo, col vento in faccia e la moto che derapava, Santo Emanuele rifletté su alcune delle cose che aveva visto in quei pochi giorni brasiliani.
Pensò ad esempio che ogni città o paese, grande o piccolo, dovrebbe avere una banda di musicisti che suona per le strade, ogni giorno, pagati dal Comune per rallegrare i cittadini.
Ogni piazza dovrebbe avere dei trampolini per far saltare i bambini e fargli provare il brivido e l’emozione di vedere il mondo da un altro punto di vista. Più alto.
Ogni prete dovrebbe iniziare la messa con un bel “Allegria! Allegria!”.
Questo avrebbe proposto, se fosse diventato vicesindaco.
Il pensiero lo sfiorò. Immaginò il suo studio personale, una targa con il suo nome inciso.
Sorrise.
E pensò che per sorridere non è necessario avere i denti.

Alla prima salita ripida, la moto si impennò come un cavallo selvaggio e quando la ruota toccò nuovamente terra il motore si spense di colpo. Dovettero spingerla a mano.
Il pilota alzò la visiera, gli mostrò il sorriso sdentato, sollevò il pollice della mano destra e chiese:«Tudo bem?»
«Tudo bem tudo bem» rispose Santo Emanuele.

Ripartirono, affumicando gli alberi di una coltre nera.Sfiorarono il centro di Pacunaímba e presero una strada che li portò su una collina di baracche fatte di terra e lamiera.
Quando arrivarono all’inizio della favela, incrociarono un posto di blocco: dentro un capanno alcuni ragazzini, poco più che quindicenni, stavano stravaccati su delle sedie sgangherate.
Quei ragazzini li guardarono e li controllarono.
Non c’era bisogno della carta d’identità né del passaporto. Era un controllo molto rapido, effettuato unicamente con la potenza dei loro sguardi, fissi, minacciosi.
Uno di loro, alzando debolmente una mano, fece un cenno.
Potevano passare.

«Onde está a casa de Zé Santos?» chiese l’autista, prima di ripartire.
I ragazzini si guardarono, senza entusiasmo. Si consultarono con dei cenni di intesa e poi uno di loro disse:«Tem que ir atrás dos fogos de artificio
«I fuochi d’artificio? Quali fuochi d’artificio?»

La mototaxi rombava, in attesa di una risposta.
Ma proprio in quel momento un boato esplose alto nel cielo davanti a loro, tra le baracche che si arrampicavano sulla collina polverosa.
Il cielo si stava facendo buio e si animò di enormi fiori colorati che esplodevano in aria: uno verde, uno rosso, uno giallo.

 

Fiori1

Illustrazione di Silvia Mauri

 

 

 

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