Nel paese timido
Storie dolci di bambini e delle loro riflessioni senza tempo
Bianca
Bianca l’ho incontrata in libreria. È una bambina geniale dalla risposta mai banale. Fa la quarta elementare e mi ha detto:
“Sto scrivendo un romanzo da otto anni.”
“Ma scusa… quanti anni hai?”
“Otto.”
Vedendomi perplesso, ha ritenuto opportuno puntualizzare:
“L’ho pensato quando ero nella pancia di mia madre.”
La valigia
L’anziano ferroviere scruta un gruppo di studenti universitari con i trolley, pronti a salire sul treno al binario 1. Si schiarisce la voce e, rivolgendosi a suo nipote di dieci anni, dice:
“Io ho sempre usato le valigie. La vita l’ho portata a mano. Era pesante e ho sudato assai. La generazione di tuo padre si è inventata gli zaini e la vita l’ha portata in spalla. Adesso ci sono questi trolley,” e nel pronunciare la parola, sbruffa come una locomotiva, “i giovani la vita se la trascinano. Chissà tu cosa userai?”
“Nonno, io mica devo partire. Io resto qui!”
Proprio in quel momento, al binario 1 il capotreno si mette il fischietto in bocca e, gonfiando le guance, tira fuori un fischio acutissimo, che entra dritto dritto nelle orecchie.
E l’anziano ferroviere grida “Rigore!”, alzando le mani al cielo.
La maestra bambina
Ogni volta che tramonta il sole, penso a lei.
Chissà dove sarà?
La maestra bambina arrivò a scuola un bel giorno di settembre. Sorrideva sempre, era un po’ bassina e aveva il volto di bambina. Per questo gli altri insegnanti la chiamavano così.
Veniva a scuola scalza.
Dovete sapere che, una volta, l’edificio di questa scuola elementare era stato un albergo, a tre stelle per la precisione. Sta proprio di fronte al mare. Solo uno stretto marciapiede, con mattonelle traballanti, separa l’ingresso dalla sabbia dorata della spiaggia.
La maestra bambina parcheggiava la sua Cinquecento sul lungomare, si sfilava le scarpe, attraversava la spiaggia fino ad arrivare al bagnasciuga e si fermava di fronte al mare.
Rimaneva incantata, per quasi cinque minuti.
A cosa pensava, nessuno lo sa.
Di tanto in tanto, apriva le braccia, come se volesse abbracciare il mare.
Io la guardavo dall’ingresso della scuola.
Poi suonava la campanella e tutti i bambini iniziavano a salire le scale per raggiungere le piccole aule al secondo piano, salutando i bidelli e prendendo posto. Ma io continuavo a guardarla dalle finestre.
L’edificio ne è pieno e questo mi piace, perché è un po’ come stare all’aria aperta.
“È la scuola più luminosa del mondo”, dice il preside Centovalli.
E mentre tutti in classe facevano chiasso, spostavano i banchi, si lanciavano palline di carta in attesa della maestra bambina, io la osservavo: tornava dalla spiaggia sorridente, ma con il viso rivolto verso il basso.
A cosa pensava?
Entrava a scuola scalza, senza rimettersi le scarpe.
Il preside Centovalli non le diceva nulla, riusciva a malapena a salutarla. Quando la vedeva iniziava a balbettare e a sudare. Anche d’inverno, quando il caldo ormai non c’è più.
“Bu… buon… gio… gio… rno… signo… rina…”
Le sue parole strascicate suonavano più o meno così.
Non riusciva ad andare avanti.
Quando la maestra bambina entrava in aula, salutava i suoi alunni uno per uno.
Scherzava sempre.
Diceva per esempio che, quando era arrivata l’ora di uscire, la campanella non suonava, ma sbruffava e diceva:
“Uffa, un’altra mattina di scuola è finita!”
Le piaceva fare la maestra.
Non stava mai seduta in cattedra. Con un libro in mano, si muoveva tra i banchi e la lavagna, in punta di piedi.
Il mese di maggio, quasi tutti i giorni, tra una lezione di italiano e una di geografia, accadeva una cosa che, lì per lì, sembrava strana: si sporgeva dalla finestra della nostra aula.
“Oh, madonnina santa!”, esclamava Carmelina, al primo banco.
Non riusciva proprio ad abituarsi a quella scena.
“Oh, madonnina santa!”
Era come se avesse le vertigini al posto della maestra, che al contrario era agilissima.
Sembrava danzare sull’orizzonte del mare.
A pensarci bene, avrebbero potuto chiamarla anche la maestra ballerina.
Ma non ballava: con la mano raggiungeva il grande ciliegio, ormai arrossito.
Raccoglieva tantissime ciliegie.
Alle bambine regalava orecchini.
Incastrava lo stelo sull’orecchio, facendo penzolare le due ciliegie. E diceva, sorridendo: “Ti stanno proprio bene!”
Poi Paride rubava gli orecchini a Carmelina e se li mangiava, sputando il nocciolo dalla finestra. Andrea faceva lo stesso con Clara e finiva che tutti mangiavano ciliegie. Si sa, una tira l’altra.
Quando la maestra bambina ci leggeva un libro, Carmelina, che stava sempre sulle spine, chiedeva:
“Non dobbiamo prendere appunti?”
“Se volete sì, ma non siete obbligati. Imparate ad ascoltare.”
E ascoltavamo eccome!
Il tempo con lei volava leggero.
Quando suonava la ricreazione, i noccioli di ciliegia li piantavamo in cortile. Si scavavano piccole buche con le mani e, in pochi secondi, avevamo tutte le unghie nere. Ma lei non diceva niente.
“È come cercare un tesoro!”, gridava Ninetto, il più scalmanato.
“In realtà, lo state seminando” ci diceva con voce calma. “Quando avrete la mia età, ci saranno tanti piccoli alberi di ciliegie e la scuola sarà ancora più bella…”
Anche all’uscita, ci salutava uno per uno.
“Divertitevi!” esclamava.
Nessuno, tranne lei, ci diceva: divertitevi!
La maestra bambina era come il sole.
Un giorno se n’è andata in un’altra scuola, però ci ricordiamo sempre di lei.
Come il sole, sappiamo che, se non c’è, è perché è da un’altra parte e sorride e scherza con altri bambini.
Quando guardo il sole al tramonto, mi ricordo sempre della maestra bambina.
Ed ecco il momento! Il sole è andato giù, in fondo al mare.
I gabbiani sono andati su, adesso girano intorno. Sembra quasi che gli chiedano: “Tornerai anche domani?”
La pioggia di pane
All’uscita di scuola, il bambino trova suo nonno ad attenderlo al porto. Il programma è quello di sempre: andare a pescare.
Prima però i due, accovacciati nella barchetta, fanno una sosta sotto il ristorante “Za’ Mariuccia” ad aspettare, acquattati all’ombra, la pioggia di pane.
C’è una parte del paese che sta su una grande roccia. E, tra le case colorate, c’è la terrazza di “Za’ Mariuccia”. È il ristorante più famoso del paese.
A l’ora di pranzo si diffonde il vociare allegro dei clienti, mischiato al tintinnio di posate e di bicchieri. È un sottofondo perfetto per farsi una pennichella. E infatti il bambino si sdraia sulla pancia del nonno e chiude gli occhi.
Ma poi qualcosa gli cade sul naso, sulla bocca, tra i capelli. E in quel momento apre gli occhi.
Il nonno lo porta sempre lì, perché sa che gli piace.
“Ecco che inizia a piovere, hai portato l’ombrello?” gli chiede, sorridendo.
C’è una cosa che tutti, da “Za’ Mariuccia”, amano fare: dalla terrazza sospesa sul mare, lanciano molliche, senza neanche alzarsi dal tavolo.
E mentre l’odore di cucinato passeggia spensierato tra i vicoli, i due vengono bagnati dalla pioggia di pane. Senza né ombrello né impermeabile.
Da lassù, inizia il lancio.
La pioggia di pane è una vera tradizione da queste parti. Ma il bello deve ancora venire: le molliche non sono destinate al bambino e a suo nonno.
Non appena il pane si poggia sull’acqua, il mare si popola di pesciolini argentati, con delle striature gialle.
Schizzano a gran velocità, di qua e di là. Fanno il solletico alla pancia della barca. E saltano pure.
Sono sempre rapidissimi a spizzicare la mollica che affonda.
Ma di pane ne scende in abbondanza, un vero e proprio diluvio, e nessuno ne rimane senza.
Il mare è un lenzuolo azzurro e profumato.
“Adesso andiamo a largo, prima però devo fare una cosa…” dice il nonno, immergendo il braccio nell’acqua.
“Ci vorrà solo un minuto.”
Muove il braccio, come se stesse cercando di acchiappare qualcosa, frugando nel mare. La sua faccia è tutta una smorfia.
“Cosa cerchi? Ti è caduto qualcosa?”
È quasi a testa in giù e, da quella posizione scomoda, fa l’occhiolino al nipote, continuando la sua ricerca.
Sotto “Zà Mariuccia” il fondale è proprio basso, di sicuro con le dita lo tocca.
All’improvviso il nonno dice: “Oh! Eccolo qui! Finalmente l’ho trovato!”
“Cosa, nonno? Cosa hai trovato?”
“Il tappo del mare.”
“Che faccio? Lo tirò via?” chiede, mettendosi a ridere e tirando su il braccio.
Il nonno è fatto così: quando meno te lo aspetti, fa gli scherzi.
E, con il sorriso ben stampato in faccia, accende il motore scoppiettante della barca.
La poetica dell’imperfezione
Alla fine dell’incontro con la Quinta D, tutti i bambini mi circondano.
Sono stato in piedi per due ore, gironzolando tra i banchi, avanti e indietro. A volte, sedendomi sulla cattedra.
Ma, arrivato il momento degli autografi e delle dediche, mi siedo al posto dell’insegnante: dietro la cattedra e sulla grande sedia di legno con i braccioli, comoda come poche altre.
Non sembra, ma la parte delle dediche è molto impegnativa, volendo personalizzarla per ogni bambini. Ma è, in fondo, una piacevole tradizione. Un dolce finale.
Una bambina che di nome fa Silvia si avvicina con piglio timido, ma poi, in maniera inaspettata, mi chiede curiosa:
“Ma cos’hai nell’occhio?”
Tante volte mi sono sentito rivolgere questa domanda.
Non mi imbarazza più, ormai.
Forse, solo nel caso in cui a rivolgerla è una persona appena incontrata.
“Molto piacere. Oh! Ma cos’hai nell’occhio?” con il tono preoccupato di chi è pronto a portarmi d’urgenza al Pronto Soccorso.
Sono sincero: ho pensato tante volte ad una risposta fantasiosa.
- Mi ha punto una zanzara. Sì, proprio lì, al lato dell’iride.
- Ho l’eclissi di pupilla. Parziale.
- Giocando con la plastilina me n’è finita un po’ nell’occhio.
Mi piacerebbe giocare con questa imperfezione, che scaturisce grande curiosità e fantasia. Ma la verità è che proprio non riesco a non dire la verità. Quindi, sincero, rispondo:
“Ho un neo nell’occhio.” (il termine tecnico è “dermoide”, ma è una parola molto difficile ed è meglio non utilizzarla)
I bambini non sembrano mai sorpresi.
E anche quella mattina, alla fine dell’incontro con la Quinta D e dopo aver risposto alla domanda di Silvia, tutti mi salutano sorridenti e vanno a mensa: li aspetta una minestra di cui non vanno per niente golosi.
Mentre ripongo i miei strumenti nella valigia e mi preparo a uscire, il bambino indiano della classe, Rajat, entra di corsa, mi si para davanti e mi dice:
“Tu hai tanta fantasia perché hai il neo nell’occhio!”
E sparisce così com’è apparso, correndo verso la porta e raggiungendo il resto della classe, che ha ormai preso la via delle scale.
Rimango stordito. A ripensarci, sembra la scena di un film. Una frase così netta. Il bisogno di tornare indietro ed esprimermi quel pensiero.
“Tu hai tanta fantasia perché hai il neo nell’occhio!”
E chi lo sa!
Forse quel piccolo puntino nell’occhio mi fa vedere il mondo con uno sguardo leggermente diverso.
Forse, l’idea dell’eclissi non è poi così fantasiosa: da sempre genera stupore e meraviglia per un creato che non potremo mai spiegare fino in fondo.
Da sempre, è mistero.
A me piace pensare che Rajat abbia ragione.
Esco fuori dalla scuola e mi fermo davanti alla Fontana di Trevi, che è giusto a cento metri. Mi giro di spalle, prendo una monetina dorata dal portafoglio e la lancio in alto, col braccio destro.
Sento, impercettibile, il rumore che fa il contatto della moneta con l’acqua. Un tuffo perfetto.
Poi, riprendo a camminare e ripenso al mio neo nell’occhio e al momento emozionante che mi ha fatto vivere.
Vivere per sempre (prima parte)
Alla fine di ogni incontro con i bambini, arriva il momento delle dediche sul libro.
Mi piace personalizzare ciascuna dedica, curiosando tra i sogni dei bambini.
“Qual è il tuo sogno? O più semplicemente, che cosa ti piace fare?”
Alcuni mi chiedono: “Adesso o da grande?”
“Adesso, ma anche quando sarai grande…”
Un pomeriggio, un bambino ci pensa più del solito. Si tiene l’indice poggiato sul mento e guarda in alto. Di tanto in tanto, lancia uno sguardo alla mamma, poco distante da lui.
Sui sogni esce fuori un po’ di tutto. Ed è una prova che si fidano di me, perché si aprono sempre. Mi diverto: fare il mugnaio, lo scrittore (e perché no, lo scrittore-mugnaio?), aiutare le persone povere e sfortunate, diventare un campione o una campionessa sportiva, fare la contadina, sognare trattori, il parrucchiere, fare il genio, il prete, il poliziotto, il falegname e via dicendo.
Una volta un bambino mi ha risposto “il papà!”.
E la mamma, al suo fianco, ha tradotto: “vuole fare il lavoro del papà, essere come lui”. Ma secondo me voleva dire esattamente quello che ha detto: vuole fare il papà, da grande.
Nelle scuole, scrivo insieme ai bambini sul foglio di un quaderno i loro sogni, ma a differenza dei disegni, il foglietto con i sogni non me lo regalano mai.
I sogni li confessano, ma poi se li tengono ben stretti.
Quel bambino, che ancora sta pensando al suo sogno, dopo un paio di minuti mi risponde:
“Il mio sogno è vivere per sempre.”
La risposta mi colpisce, quasi come uno schiaffo.
Non mi viene naturale scrivere sul libro:
A Giovanni, che vivrà per sempre.
Mi piace incoraggiare i bambini, ma non voglio illuderli.
Che cosa scrivere per quella dedica?
Sono io, adesso, a tenermi il dito sul mento, a guardare in alto e a cercare mia madre, che però è distante svariati chilometri, sperando in un suggerimento veloce.
Non posso riflettere a lungo, ho una fila di bambini con il libro in mano, in attesa di dedica.
E così scrivo: A Giovanni, che troverà il modo per vivere per sempre.
Non ho trovato di meglio. E credo di essermela cavata, salato in corner all’ultimo secondo.
Gli altri bambini, però, affascinati da quell’idea, hanno iniziato a dirmi, in un impeto di emulazione: anch’io vorrei vivere per sempre, pure io voglio vivere all’infinito.
L’infinito.
L’infinito è un concetto che i bambini maneggiano spesso, senza paura e con l’ingenuità necessaria. Può sembrare strano, ma in quegli istanti, circondato da bambini che volevano vivere per sempre, la mia memoria è tornata a quando ero bambino io.
Vivere per sempre (seconda parte)
Avevo poco più di dieci anni e i miei genitori mi fecero fare un anno di catechismo, che sarebbe culminato con la prima comunione.
Dovevo andare un paio d’ore a settimana, il sabato pomeriggio, in una scuola materna gestita da suore, vicino casa. La raggiungevo a piedi.
Appena entravo in una delle piccole aule della scuola, venivo accolto da una suora che aveva il nome di un colore.
Suor Celestina doveva insegnarci le basi della religione cattolica.
In mezzo ad un gruppo di ragazzini scalmanati e rumorosi disposti in cerchio, che saltavano sulle sedie e chiacchieravano tra loro, suor Celestina, con paziente dedizione, ci parlava di Gesù, Dio, lo Spirito Santo, che poi erano tutte e tre la stessa cosa. Il concetto della Santa Trinità non mi era chiaro, ma la suora ci confortava spiegandoci che il punto non era capire, ma avere fede.
Ci parlava del dovere di essere buoni su questa terra, perché così ci saremmo guadagnati la vita eterna nell’aldilà.
In quel periodo della mia infanzia potevo permettermi ancora il lusso di stare ore nella vasca da bagno, piena di schiuma, con i libri di favole in plastica da leggere, le paperelle gialle da strizzare per far uscire rumori strani, il formidabile gioco di rimanere il più tempo possibile sott’acqua ascoltando i rumori ovattati della casa, il battito del cuore, e i pensieri che rimbombavano.
E pensavo all’infinito. Con il corpo nella vasca, fissando il soffitto del bagno.
Nell’acqua, riecheggiavano in me le parole di suor Celestina sulla vita eterna.
E mi chiedevo ingenuamente:
“Allora, dopo la morte, dovrei vivere all’infinito? Cioè fra un miliardo di anni dovrei essere ancora vivo? In cielo, come dice suor Celestina? E ancora, fra un miliardo di un miliardo di un miliardo di anni, ancora dovrei esistere da qualche parte lassù? Camminando? Fluttuando nell’aria? Stando fermi?”
L’infinito temporale, per me, era quel fra un miliardo di un miliardo di un miliardo di anni, muovendo la mano destra in maniera circolare, a indicare una serie di ancora, e ancora, e ancora. Infiniti.
Immerso nell’acqua saponosa della vasca, sospiravo e, sussurrate, emergevano le prime parolacce. E un piccolo seme di ribellione:
“Vivere all’infinito? E che palle!”
Da bambino, a differenza di Giovanni, l’infinto temporale non mi piaceva. E mi spaventava.
Io non volevo vivere per sempre.
Quel pomeriggio in libreria, se non fossi stato circondato da bambini e dai loro genitori, a Giovanni avrei chiesto di spiegarmi quel suo desiderio, quel suo sogno, per capire meglio cosa volesse dire e quale ne fosse l’origine.
E forse avremmo parlato del mare, che da sempre mi ricorda l’infinito. Il moto incessante delle onde. Movimento e ciclicità. Il loro rumore.
Il doppio
Una signora legge e scarabocchia la settimana enigmistica sul suo balcone, adornato di gerani rossi. È rivolta verso la cucina e dà le spalle al paese. Tossisce.
Dal vicolo, sfrecciando sotto un arco medievale, sbuca un bambino su una bicicletta. Si alza sui pedali e prende velocità. Ha gli occhiali, i capelli riccioluti e lunghi, in parte appiattiti da un cappello rosso.
La signora è distratta da quella presenza improvvisa. Si volta, si alza e chiede: “Tu chi sei?”
“Emanuele”, risponde il bambino, frenando all’improvviso.
Non capisco il senso della domanda.
Il bambino risale in sella e riprende velocità, percorrendo tutto il vicolo e scomparendo alla prima curva.
Dopo pochi secondi, vedo sbucare dallo stesso vicolo un bambino identico al precedente. Passa sotto lo stesso arco. La bici è uguale. E anche il cappellino rosso.
Senza quella domanda, inizialmente non compresa, avrei pensato ad una mia allucinazione. Un’illusione ottica. Un déjà-vu.
E non avrei capito che si trattava del suo fratello gemello.
Coma va la vita?
“Come va la vita?” mi chiede il bambino alla festa di compleanno.
La madre è molto sorpresa da quella domanda.
“Bene” rispondo. “Mi diverto.”
“Com’è scrivere libri?”
Non se ne rende conto, ma dietro di sé ha un’enorme libreria, con più di 1000 volumi, a coprire l’intera parete del soggiorno.
“È bello” rispondo, sfiorato da un palloncino verde che galleggia a mezz’aria, “ma non ti credere che sto
tutto il tempo a scrivere libri, altrimenti avrei riempito una libreria come quella che hai alle spalle.”
Il bambino si gira, la osserva con attenzione, mentre addenta una crostata con la cioccolata. Poi mi dice: “Meglio così, altrimenti avresti avuto troppe cose da insegnarci.”
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